Le donne di Sevota-Rwanda
Il Rwanda, con i suoi 26.000 kmq, è uno degli Stati più piccoli del continente africano. Nonostante ciò, questo piccolo e magnifico lembo di terra accarezzato da innumerevoli verdi colline, è stato teatro di uno dei genocidi più cruenti della seconda metà del Novecento. Nel 1994, infatti, in soli cento giorni sono state uccise circa un milione di persone, in un vortice di violenza fratricida che ha visto l’accanimento degli Hutu (gruppo etnico cui allora afferiva l’85% della popolazione) nei confronti dei Tutsi (rappresentati dal 25% della popolazione), con l’obiettivo della loro completa estinzione. I motivi alla base di ciò sono, come per tanti altri conflitti, deboli e lontani, nati da una storia antica di migrazioni esasperati da un regime coloniale poco interessato ai popoli autoctoni, e alimentati dalla cieca ignoranza di chi ambisce al potere senza mezzi termini.
E, come per tanti altri conflitti, a pagarne le spese è stata la popolazione intera. Uomini, donne e bambini, vittime innocenti di una violenza indicibile.
Le donne, in particolare, sono state le cavie per l’utilizzo di una micidiale arma a costo zero e di lungo periodo: lo stupro di guerra. Per la prima volta nella storia, infatti, la violenza sessuale è stata utilizzata alla stessa stregua di uno strumento bellico: nel corso del genocidio furono organizzati squadroni di stupratori scelti tra i malati di HIV al fine di infettare le donne, ingravidarle, e far nascere un figlio (Hutu, perché in Rwanda, come in tanti Paesi africani, è il padre a determinare l’etnia) a sua volta malato, e odiato, perché “figlio del male”.
Godelieve Mukasarasi, fondatrice di SEVOTA, come altre 500.000 donne rwandesi, è stata vittima di uno stupro di guerra.
Godelieve fu punita perché, pur essendo Hutu, aveva sposato un uomo Tutsi. Per questo durante il genocidio fu violentata e infettata con il virus dell’HIV. Lei e la sua famiglia riuscirono però a sopravvivere al genocidio e, una volta terminati i tremendi 100 giorni di violenza, Godelieve decise di reagire ai traumi che la guerra aveva creato non solo a se stessa e ai suoi
cari, ma a tutte le donne che come lei erano state vittime di quella violenza machista che le aveva volute umiliate, malate e psicologicamente spezzate.
Così, iniziò a parlare di quello che aveva vissuto, senza vergogna né timore. Altre donne, Hutu e Tutsi, la seguirono e, un po’ per volta, iniziarono a trovarsi. Non avevano parole per descrivere tutto il male vissuto sulla loro pelle. Allora piangevano insieme, e quel pianto le rendeva forti. All’inizio erano due, poi cinque, poi dieci, poi trenta, cinquanta, e quando arrivarono a un centinaio, Godelieve iniziò a cantare, cantava la sua storia, le loro storie. Il canto era la loro terapia. Le loro voci insieme creavano un coro armonioso e forte, così forte che Godelieve capì che quanto vissuto andava denunciato. Fondò l’associazione SEVOTA, per le donne e le vedove del genocidio vittime di violenza.
Le donne di SEVOTA iniziarono a far sentire la loro voce sotto la sede del Parlamento, chiedendo che lo stupro di guerra venisse punito alla stessa stregua delle uccisioni. E così fu.
L’associazione, decise di portare le loro storie al Tribunale dell’Onu, con sede ad Arusha - Tanzania, impegnato nel giudizio delle menti del genocidio. Anche Godelieve portò la sua storia, e il giorno in cui suo marito e sua figlia furono chiamati a testimoniare, l’auto su cui viaggiavano fu oggetto di un attentato e i due morirono poco dopo essere partiti dal Rwanda.
Il Tribunale Penale Internazionale di Arusha riconobbe lo stupro come Crimine di Genocidio e Crimine contro l’Umanità e condannò gli imputati che si erano macchiati dell’organizzazione di questo crimine.
L’associazione SEVOTA è tutt’oggi punto di riferimento di molte donne vittime di violenze di guerra, diversi sono i progetti creati per loro.
Con l’intento di aiutare le donne a ricostruirsi e a vivere in autonomia, l’associazione ha attivato accompagnamenti psicologici e professionali.
Dal counselling psicologico (con particolare attenzione per l’accettazione dei figli dello stupro) all’attivazione di piccole attività generatrici di reddito e all’organizzazione di cooperative professionali. L’apicoltura, la realizzazione di panieri artigianali da vendere per i matrimoni, la coltivazione del sorgo per la produzione dell’omonima birra molto apprezzata nel Paese, l’allevamento e l’agricoltura sono le attività avviate all’interno di questi progetti.
Piccoli progetti nati dalla grande capacità di resilienza di queste magnifiche donne.